venerdì 12 ottobre 2012

Poliziotto buono e sbirro cattivo (di Rita Pani)


Il giorno dopo è sempre quello, in Italia, delle domande e delle risposte. Persino delle interrogazioni. Mai un giorno prima, grazie ai giorni dopo passati, alle altre domande poste, alle altre risposte date. Dopo le altre interrogazioni (parlamentari).
Il giorno dopo le cose, è il momento in cui ci si schiera e si tenta di ragionare, di trovare la
soluzione, ed è sempre il giorno del giudizio che implacabile si scaglierà su questo o su quello per essere condonato domani dalla facilità con la quale tutti si cede all’oblio.
Dopo le immagini del bambino portato via a forza dalla polizia, resta lo sdegno, lo schifo e persino l’incredulità, e di domande ne restano così tante da poter riempire pagine e pagine di storia (sempre quella che poi scorderemo domani, anziché imparare a memoria).
So per esperienza personale che all’interno di un tribunale dei minori, difficilmente troveremo un giudice Salomone e una guardia dotata di spadone. So molte cose – belle e brutte – dei servizi sociali. So persino che non basta partorire per essere madri, e che nemmeno basta dichiarare l’amore incondizionato – dal fatto di essere madri – che spesso si mostra ma non si dà ai figli. L’amore di madre non è possesso, ma sacrificio (e questa è un’altra terribile storia). So che ci sono padri bellissimi e padri orridi e so anche – sempre per esperienza diretta o indiretta – che sovente sono i secondi ad avere la fortuna di saper mentire meglio, presentarsi meglio o peggio ancora farsi forza delle credenziali magari date da una divisa, la stessa che anziché rassicurarci, ci fa tremare.
Tutto questo è sacrosanto, discutibile o condivisibile, tutto questo per altro nel caso specifico del bambino di Padova, io non lo so. Quel che so non è tanto quel che ho visto nel filmato più cliccato, ormai, di un filmetto divertente su YouTube, ma quel che ho sentito: “Io sono un ispettore di polizia, lei non è nessuno.”
Dice molto di più di quanto espresso in così poche parole questa frase, dice per esempio il pericolo che tutti noi corriamo. Dice l’arroganza data dalla quasi certa impunità, insegnata in Italia dalla scuola Diaz, dall’omicidio gratuito di Federico Aldrovandi, dagli operai feriti in corteo, dalle vecchie pestate sui binari dei treni in Campania, da un sacco di piccoli e grandi episodi che ci hanno fatto indignare, sì, ma che a volte nemmeno vengono rilanciati dalla stampa ormai impegnata a sopire le coscienze più che a tenerle sveglie e allarmate.
Mi fa paura l’ignoranza di una donna che si fa scudo di una divisa, che impone il suo presunto potere, scordando quale dovrebbe essere il suo ruolo funzionale alla società. Temo di poterne incontrare anche io, domani, uno nella mia strada, perché magari rivendico un diritto o peggio in un momento di mancanza dei miei doveri. Con che animo dobbiamo fermarci a un posto di blocco, o a chi dobbiamo dar conto quando in una stazione ferroviaria, per esempio, questa gente ci viene incontro con cani al guinzaglio che pesano più di me?
Ora mi par di sentire la giusta obiezione: non bisogna generalizzare …
Sarà pur vero che un elemento avariato non fa di tutto il mucchio marciume, ma se non si riesce ad avere, per esempio, un numero che identifichi “lo sbirro” che ti viene incontro col casco in testa e il manganello nella mano, come posso sapere se chi mi ferma per strada, in un corteo, in aeroporto o alla stazione, è marcio oppure no?
“Scusi, lei è un poliziotto buono o uno sbirro cattivo?”
Ancora una volta, purtroppo paghiamo i conti dello sfascio creato: una volta il fascismo era ancora reato.

Rita Pani (APOLIDE) - 12 ottobre 2012 -
R-ESISTENZA-INFINITA
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