martedì 25 settembre 2012

Napolione (di Marco Travaglio)


Mai fare battaglie di principio nel paese dei conflitti d’interessi e degli ideali di bottega. Domenica abbiamo scritto che la condanna in appello di Alessandro Sallusti a 14 mesi di carcere senza la condizionale per un articolo diffamatorio scritto da un altro dimostra ancora una volta l’indecenza di una politica che non ha mai voluto riformare la
diffamazione per rendere la stampa ancor più serva e ricattabile. E che il caso particolare, prima della sentenza di domani della Cassazione, si può risolvere in un solo modo: Sallusti risarcisca i danni e chieda scusa al giudice diffamato, nella speranza che questi ritiri la querela. Subito i soliti noti ne hanno approfittato per sparare sui magistrati che osano querelare chi li diffama (come se non fosse un sacrosanto diritto di ogni cittadino); per evidenziare che in Italia querelano più che negli altri paesi (e per forza: negli altri paesi B. non
ha processi né possiede giornali o tv); per invocare un decreto ad Sallustem o un provvedimento di grazia (ancor prima della condanna definitiva); per gabellare le diffamazioni – anche quelle dolose e reiterate – per “reati di opinione”; per attaccare i giudici d’appello che han condannato Sallusti applicando la legge esistente; per scatenare ridicole campagne innocentiste con la scusa che “l’articolo non l’ha scritto Sallusti” (già, ma allora chi l’ha scritto dovrebbe avere la decenza di uscire allo scoperto e dichiarare che la boiata diffamatoria è Farina del suo sacco, anziché lasciar condannare un altro al posto suo). Poteva mancare, in questo guazzabuglio, l’interferenza del Quirinale? No che non poteva. Infatti il solerte portavoce del Colle, Pasquale Cascella, ha perso l’ennesima occasione per tacere, twittando che il presidente Napolitano, “segue il caso” Sallusti e “si riserva di acquisire tutti gli elementi di valutazione”. Così i cinque giudici di Cassazione che domani dovranno pronunciarsi sulla condanna del direttore del Giornale sanno che il Presidente della Repubblica li tiene d’occhio. E che, se dovessero decidere per la conferma della sentenza d’appello, entrerebbero in rotta di collisione con il presidente del Csm da cui dipendono le loro carriere e i loro procedimenti disciplinari. Dicevano i latini, quando Roma era ancora la capitale del diritto e non del rovescio, che il giudice deve decidere secondo legge e coscienza sine spe ac metu: senza aspettarsi premi né rappresaglie in conseguenza delle loro sentenze. Dopo l’improvvido tweet del Quirinale, sul capo dei magistrati della Suprema Corte pende un metus grosso così. E non è la prima volta. Nel 2006, quando i giudici di Potenza arrestarono Vittorio Emanuele di Savoia, Napolitano chiese tutti i dossier disciplinari a carico del pm Woodcock. Nel 2008, quando la Procura di Salerno perquisì gli uffici giudiziari di Catanzaro che avevano sabotato il pm De Magistris e insabbiato le sue indagini, Napolitano chiese gli atti della perquisizione addirittura prima che fosse conclusa. E, nell’aprile scorso, trasmise le sue lagnanze di Mancino al Pg della Cassazione perché indirizzasse nel senso da lui auspicato le indagini di Palermo sulla trattativa Stato-mafia tramite Piero Grasso. Non si sa chi abbia messo in testa a Napolitano di essere il capo della magistratura, autorizzato a pilotare indagini e sentenze, manco fosse Napoleone. Qualcuno dovrebbe spiegargli che è solo il presidente dell’organo di autogoverno dei magistrati, che è collegiale, si riunisce in date prefissate, dev’essere informato delle iniziative del suo presidente e soprattutto non può dire ai magistrati quello che devono o non devono decidere. Può solo stabilire (il Csm, non il presidente da solo), a posteriori, se quel che hanno fatto è abnorme o viola il codice disciplinare. E, quando qualcuno interferisce nella loro attività, deve aprire pratiche a loro tutela. Ora non vorremmo che il Csm dovesse aprire una pratica per tutelare i giudici dal presidente del Csm.

Marco Travaglio - 25settembre 2012 -
Fonte: Il Fatto Quotidiano Pdf
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